Si fa una certa fatica ad abituarsi all’altitudine del Tigray. Per me è la prima volta all’ospedale Hewo di Quhià e la leggera salita che porta agli alloggi dei volontari mi ha tolto il fiato. Eppure i medici che hanno alle spalle già qualche missione sembrano non sentire il peso dell’aria rarefatta. Mi danno un pacca sulla spalla, dicono che passerà. Non credo sia l’abitudine a farli camminare cosi spediti, sono appena arrivati da Roma anche loro, piuttosto sembra una particolare energia.
Ci vuole pochissimo a disidratarsi, il sole picchia ma non te ne accorgi, e il vento secca la pelle. Fuori dall’area in cui sorge l’ospedale la terra è sassi, gli animali dividono lo spazio con gli uomini e ogni cosa necessaria per portare avanti l’attività sanitaria è complessa, terribilmente complessa, che sia comprare un riduttore di pressione per la bombola d’ossigeno, cercare un pezzo di ricambio, prenotare un biglietto aereo o attivare una pennetta per navigare su internet.
Per due settimane ho cercato di capire da dove venisse quell’energia che ho visto negli sguardi e nelle gambe di quel gruppo di persone cosi diverse e che ho osservato lavorare in questo angolo di mondo tanto difficile. Perchè, mi sono chiesta, hanno deciso di spendere una risorsa tanto preziosa come il tempo, togliendolo al proprio lavoro, alla famiglia, ai propri interessi, al riposo, per venire a Quihà? E soprattutto, perchè ritornano, chi appena può, chi persino più volte l’anno? Non è soltanto il “dare”, ma piuttosto ciò che si “riceve” a sostenere, quasi fosse leggera, la fatica di queste donne e di questi uomini. Ho iniziato a comprenderlo il primo giorno, quando ho sentito il silenzio dei malati che attendevano la visita chirurgica. Erano tanti, in fila, davanti all’ambulatorio, dignitosi nella sofferenza. Per arrivare all’Hewo c’è chi ha dovuto camminare molti chilometri.
Nello stabilire la natura della malattia e se un paziente potrà essere operato o meno, i sanitari devono usare tutto l’intuito e le competenze di cui dispongono senza poter ricorrere a molte delle indagini che si farebbero in Italia. Gli strumenti diagnostici sono relativamente più semplici dei nostri perchè le tecnologie più sofisticate, mi spiegano, non servono a molto in un luogo dove è difficile trovare un pezzo di ricambio non solo per riparare gli strumenti medicali, ma anche quando si tratta di un banale elettrodomestico. Eppure, la cosa più difficile per i volontari sembra essere un’altra: superare le barriere linguistiche e culturali che li separano dai malati. E’ una sfida che accompagna il loro lavoro per tutto il percorso chirurgico, da quando si prepara il paziente per l’intervento fino alla dimissione, alla prescrizione della terapia. Lo scambio, il “dare” ed il “ricevere”, iniziano già qui, nell’imparare a comunicare nonostante le diversità.
Si direbbe che i volontari stiano facendo molto per migliorare le condizioni di malati che troverebbero poca o nulla assistenza altrove, che stiano portando speranza, conoscenze, sviluppo. Ed è vero che un intervento chirurgico può cambiare il corso della vita di un uomo con un tumore o di una donna con un gozzo talmente grande da impedirle quasi di respirare e che la costringe, deturpandone la bellezza, in una condizione di emarginazione. E’ vero che intorno all’ospedale la cittadina di Quihà sta crescendo, che sono stati portati servizi, un asilo, infrastrutture, che c’è un trasferimento di competenze tra medici italiani e locali. Ma osservando con più attenzione, è ciò che si riporta a casa, ad ogni età, ad ogni missione, a stupire. Non è tanto una maggiore perizia nel proprio mestiere, benchè si operi in un contesto complesso dove, per esempio, anche solo reperire una sacca di sangue non è cosa da poco e rimediare agli errori non sempre possibile. E neppure soltanto consapevolezza di aver fatto qualcosa di utile. Piuttosto, si impara molto di sè, come essere umani prima ancora che come medici, infermieri, tecnici o altro. Si acquista la consapevolezza che con l’impegno si può fare la differenza, qui e ovunque, anche quando ci si deve scontrare con l’estenuante burocrazia etiopie, con l’elettricità che va e viene, con l’assenza di internet, con le infinite difficoltà di comunicazione, le differenze culturali. Si mettono in discussione convinzioni, certezze, si ridefiniscono le priorità. Si impara, soprattutto, che lo “sviluppo” è un concetto circolare, che si cresce insieme nella diversità, etiopi ed italiani. Il risultato non è solo la guarigione del malato, ma è l’impatto complessivo su una comunità che cresce e migliora, mentre cresci e migliori tu. Ho capito quanto a ciò contribuisca il rapporto stretto che si instaura tra i volontari.
Ogni giorno, guardando l’alba insieme sorgere sull’altopiano o il cielo di notte dove a cavallo tra due emisferi splendono la stella polare e la croce del sud, si recupera la dimensione del dialogo e si impara a condividere dubbi, incertezze, entusiasmi, difficoltà quotidiane, ancora una volta al di là delle differenze di età, esperienze personali o professionali. Ed anche questa è una lezione importante che ha aiutato me a ricordare che è la qualità delle relazioni tra gli uomini a generare i risultati, a portare guarigione e sviluppo, agli abitanti di Quihà e a noi stessi, e a rendere produttivo e dotato di senso il nostro lavoro, ovunque venga svolto.
Alla fine di queste due settimane anche io salivo spedita la piccola salita che porta all’alloggio dei medici e la prossima volta sono certa che sentirò meno la fatica ed il peso dell’aria rarefatta.