Sabato pomeriggio
Il “trombone” è partito.
Claudio e Mauro scendono a provare il funzionamento dell’emogasanalizzatore. Dopo un po’
Mauro risale con un sorriso che va da un orecchio all’altro: sono stati ritrovati il lonzino e i
formaggi, ben celati negli scatoloni degli apparecchi inviatici da Gebrè, l’umore generale si
risolleva. Peccato che Giorgio non abbia potuto assaporare il gusto di questo ritrovo…
Cullata dal tepore del sole che filtra dalla finestra mi addormento sulla poltroncina del
soggiorno, mi risveglia la chiacchierata tigrina delle ragazze in cucina, le nostre bravissime
cuoche sono delle chiacchierone senza pace.
Realizzo che con me alla casa coloniale non c’è nessun’altro a parte loro, così scendo a cercare
gli altri, li trovo al laboratorio, intenti a far funzionare l’emogasanalizzatore. Dopo qualche
problema con l’accettazione della cartina, si riesce a configurare bene il macchinario, ma sorge
il primo problema: l’apparecchio deve rimanere sempre acceso, con lo spegnimento infatti ci
si gioca la cartuccia, come faremo dunque quando andrà via la corrente? Abbiamo bisogno di
un generatore di corrente a cui attaccare l’emogasanalizzatore, cosi che gli venga garantita
corrente continua. Sembra una cosa da niente, ma significa: 1.identificare il generatore giusto;
2.capire come averlo: è necessario importarlo dall’Italia o è possibile trovarlo anche qui a
Mekele o Addis Abeba?
Il sole tramonta e in un attimo si fa buio, il confine tra giorno e notte qui è netto, niente
smussature, l’alba e il tramonto sono brevi contatti tra i due opposti. Risaliamo, ormai è ora di
cena, il lonzino ci aspetta.
La sera si sente la mancanza delle musica malinconica di Giorgio. Seduti nel riparato cortiletto
condividiamo la pace di questa notte stellata. Tra una settimana esatta si riparte, che tristezza,
meglio non pensarci.
Domenica
La mattina sveglia alle 6 per me e Angelo, colazione a base di caffè e pan di spagna e pronti per
partire! Una Land Cruiser con un etiope che non spiccica mezza parola di inglese viene a
prenderci, destinazione: Gheralta, visita/escursione alle chiese rupestri. La prima oretta di
macchina è su strada asfaltata (non per questo tranquilla). Anche qui la domenica mattina c’è
chi fa jogging, vediamo diversi etiopi correre sul ciglio della strada, c’è perfino chi fa le
flessioni, rigorosamente sulla strada. Superata Mekele, valichiamo una catena montuosa
piuttosto alta, sulla cima, a pochi metri dalla strada vedo un’aquila ENORME, nella sua
maestosità se ne sta lì, ferma, a scrutare gli avventori di questa strada tutte curve, la
guardiana della montagna. Rimango ammaliata, non ho il tempo di riprendermi dalla visione
che dopo qualche curva avvisto un gruppo di avvoltoi appollaiati, uguali a quelli del Re Leone,
WOW! Se ci fosse Claudio…
Il viaggio mi sembra surreale, come un sogno, forse perché sono ancora mezza addormentata.
Proseguiamo ancora un po’ su per la strada asfaltata, poi ne imbocchiamo una sterrata, è
piuttosto disastrata e non c’è NESSUNO, solo distese di niente tutt’intorno. Ogni tanto la
macchina fa delle curve improbabili che sembra finiscano nel vuoto, ogni volta mi ripeto che è
soltanto un’impressione, ma il mio intestino non può far a mano di contorcersi a ogni sterzata
di volante.
Finalmente cominciamo ad attraversare una zona più tranquilla, distese pianeggianti popolate
di buoi, capre e pastori.
Siamo in macchina da più di due ore quando arriviamo a Gheralta Lodge, una specie di
casale/albergo per turisti, una macchia d’occidente nella povertà etiope. Chiediamo
informazioni per l’escursione alle chiese rupestri, grazie al proprietario che capisce l’italiano
(e non l’inglese) e che ci fa da interprete riusciamo a spiegare all’autista che deve portarci
all’inizio del sentiero, dove dovremmo trovare la guida che ci porterà fin su. In realtà poi le
guide diventano tre, così oltre a un giovane ragazzo etiope, da noi originalmente scelto come
guida, ci accompagnano anche un vecchio ultrasettantenne e un ragazzo mingherlino, senza
che nessuno glielo chiedesse. All’inizio del sentiero un uomo dall’aria stanca, mimetizzato con
il terriccio su cui siede, riscuote i soldi per i biglietti d’ingresso, pagata la somma comincia la
scarpinata.
Il sentiero è abbastanza impegnativo, a prova di arrampicatore, e il paesaggio è pazzesco:
rocce rosse, affilate e brulle ci sormontano, rapaci ci svolazzano intorno, ogni tanto
incontriamo qualche locale che discende dalla visita domenicale alle chiese rupestri. Le nostre
guide saltellano da un masso all’altro come cavallette, il vecchietto primo fra tutti, noi ci
incespichiamo con qualche fatica (soprattutto Angelo) e dopo numerose pause per riprendere
fiato giungiamo infine a Mariam Korkor. È una piccola chiesetta in pietra, diroccata sulle cime
di un monte. È custodita da vecchi monaci che vivono in grotte nascoste nella fiancata della
montagna, affacciate sul dirupo. Lo sguardo fiero e antico, solcato dalle rughe che intagliano la
montagna. Uno di loro ci accompagna all’interno della chiesa, c’è un’entrata per gli uomini e
una per le donne, mi devo mettere il velo e togliere le scarpe. L’interno è piuttosto scarno,
qualche dipinto scolorito sulle pareti di pietra.
Usciamo, e dopo due minuti di sentiero giungiamo alla seconda chiesa rupestre, più
particolare perché edificata NELLA montagna. Questa volta la porta è unica e piccolissima
tanto che Angelo deve entrare a gattoni, l’interno è ancor più povero dell’altra.
La veduta da lassù toglie il fiato, e, se ci si sbilancia troppo, anche la vita. I monaci,
all’apparenza così spirituali, ci mostrano la loro vena carnale non tanto chiedendoci delle
offerte, quanto rifiutando le monete che gli porgiamo, per cui alla fine gli molliamo un biglietto
da 100 birr, non avendo altro; il loro volto si illumina, neanche avessero avuto un’apparizione
celestiale. Discendiamo per il sentiero dell’andata, dopo un po’ le mie ginocchia problematiche
si fanno sentire, buona parte del percorso si fa con le mani aggrappate alle rocce e le ginocchia
piegate, ma alla fine: MIRAGGIO, la nostra macchina e soprattutto il nostro autista! Uomo
paziente che ci ha aspettato per 2-3 ore sotto il sole. Paghiamo le varie guide (volute e non) e
con il portafogli alleggerito torniamo in macchina a Gheralta Lodge dove pranziamo. Il posto è
carino, un po’ in contrasto con tutto ciò che lo circonda. A metà pranzo sentiamo un forte
rumore di motore, sul prato di fianco l’edificio atterra un elicottero, scendono dei turisti, a
quanto pare anche loro pranzano alla Lodge. Se il pranzo lascia un po’ a desiderare, il post-
pranzo è perfetto: ci spalmiamo su delle sdraio alla penombra della veranda dell’edificio e
ascoltiamo la pace. Chiamiamo il resto del gruppo per assicurarci che non abbiano finito tutti i
formaggi, Mauro ci riferisce che dopo il pranzo “regale” sono tutti stesi a quattro di spade sul
letto.
Come accordato, alle 3 si presenta il nostro autista, pronto per riportarci a casa. Prendiamo
una strada diversa dall’andata, tutta sull’asfalto, che ci permette di vedere diversi paesaggi,
attraversiamo anche parecchi villaggi, alcuni sono costruiti in pietre e sterco, altri, di solito più
grandi, hanno anche edifici in cemento; è domenica e si sente aria di festa, da diverse case
proviene della musica e la gente si ritrova per stare insieme.