Sabato
Mi sveglio di buon’ora, ormai il mio orologio circadiano non ne vuole sapere di farmi alzare dopo le 6. Vado in soggiorno, come al solito Claudio, Mauro e Massimo sono già lì, tazzina di caffè alla mano. Ho voglia di fare colazione con gli zaituni, così mi infilo le scarpe da ginnastica diretta all’orto. Che bellezza. Voglio assaporare questo posto fin alla fine. E la fine è arrivata, è ora di fare le
valigie. Impiego parecchio tempo per mettere nel trolley le poche cose da riportare, alla fine ammucchio tutto e chiudo, come mi ha insegnato a fare mia sorella, maestra del disordine. Quando scendiamo giù all’ospedale troviamo fervente attività in giro, inaspettata considerando che è mattina ed è sabato! In giro c’è chi ripulisce la fontana e il cortile dalle erbacce, chi lava per terra, chi spazza il viale. Sarà l’effetto del raduno di ieri?
Arriva il momento delle ultime medicazioni, rivedo i pazienti operati in questi ultimi giorni, molti di loro vengono dimessi, se ne ritornano alle loro case, come noi. Decidiamo di salutare questo posto con una visita al mercato di Quiha, siamo Claudio, Tekle, Sergio, Angelo ed io; gli altri preferiscono poltrire alla casa coloniale. Il sabato in tarda mattina il mercato è in piena attività. Brulica di stoffe, bambini, asini, lenticchie, colori. Cerco qualcosa da riportarmi come ricordo, qualche stoffa, qualche oggetto,
qualche pezzo di questa cultura. È Claudio a scovare quel che fa per me: al bancone di una donna trova delle stoffe bianche, ricamate con bei colori accessi. Decide di comprare delle sciarpe bianche con dei ricami blu e me ne regala una. Adesso mi sento più tigrina, anch’io ho il mio scialle con cui avvolgermi e proteggermi dalla polvere e dal vento, dal caldo e dal freddo. Le donne di qui lo indossano sempre e giorno dopo giorno il bianco si colora di terra e si impregna dell’odore della fatica quotidiana. Ci avviamo sulla strada del ritorno, ma giunti ai cancelli dell’Hewo, Sergio trova il modo di prolungare la passeggiata di addio: “Avete mai visto il laghetto qui vicino? Volete andarci?” La domanda è rivolta ad Angelo e me, i neofiti del posto. Naturalmente accettiamo la proposta, anche Tekle viene con noi, non si perderebbe mai l’occasione di farci da guida, Claudio invece se ne ritorna all’Hewo, vuole salutare i due ragazzi che mandano avanti il laboratorio prima che ripartano per casa. La passeggiata tranquilla al seguito di Tekle ci conduce in un’area verde, inaspettata per l’ambiente arido a cui mi sono ormai abituata. Il laghetto è piccolo, ma rende il terreno tutt’intorno fertile, come testimoniano gli alberi e le piante che lo circondano. Condividiamo parte del cammino con delle bambine sulla soglia di diventar ragazze. Ridono divertite alle parole in inglese di Sergio, che probabilmente non capiscono, e si scambiano sguardi d’intesa femminile. Il giro per le periferie di Quiha si conclude con l’avvistamento di un gruppo di avvoltoi, che immortalo con diversi scatti da fare invidia a Claudio. Giunta all’ultimo giorno di questa esperienza ho ormai imparato a girare sempre con macchina fotografica alla mano. Naturalmente il pranzo d’addio non poteva non essere a base di enghera (per accontentare Sergio), zighinì (per la felicità di Angelo) e shirò. Spazzoliamo via tutto, qualcuno teme ripercussioni intestinali in aereo, ma pazienza, come se disce a Roma “quando sce vò, sce vò”.
Un istinto bambinesco mi suggerisce di nascondermi sotto il letto e aspettare che la jeep per l’aeroporto se ne vada, per poi ricomparire quando sarà troppo tardi per ripartire. Non sono l’unica a voler rimanere e a progettare ipotetici piani per mandare all’aria il ritorno, Baba Mauro e Claudio sembrano pensarla come me. Niente da fare, alla fine, quando arriva la macchina per caricarci, siamo tutti.
Ritorno con la mente a quindici giorni fa, quando in questo stesso punto sono scesa dallo scuolabus. Dicono che quando si parte, non si parte per tornare perché non è mai possibile tornare allo stesso punto da cui si è partiti. Sono sempre io, su questo stesso asfalto, eppure non sono più quella che ero. Salgo in macchina, si accende il motore, varchiamo i cancelli dell’Hewo, il nostro nostos verso casa ha inzio.
Nota finale
Nello scrivere questo diario mi sono affidata a dei veloci appunti presi in quei giorni e ai ricordi che sono maturati in me. Per questo motivo nella narrazione si alternano passi incalzanti ed oggettivi a passi più particolareggiati ed introspettivi. Ho voluto lasciare questo contrasto perché, ripensandoci, ben si addice al ritmo con cui ho vissuto quest’esperienza: c’erano dei momenti in cui era un continuo susseguirsi di eventi e nuove esperienze, sensazioni che percepivo, ma che non avevo il tempo di capire, finché poi, principalmente la sera, quando, calato il sole, sedevamo insieme nell’atrio, mi fermavo a riflettere su quel che avevo visto, ripercorrendo la mia giornata. Non è facile riuscir a far trasparire da una parte la freschezza e la vivacità del vissuto e dall’altra le riflessioni che ne derivano. Voglio infine ringraziare Giorgio per avermi spinto a scrivere questo diario.