Non è necessario cambiare il mondo per dare senso al proprio essere medico e uomo, basta contribuire a cambiare la vita di una persona. E’ con questa consapevolezza che Maria rientra in Italia dopo due settimane all’Ospedale Hewo di Qhià. Studia medicina, è al quarto anno. Il suo futuro lo immagina nella chirurgia pediatrica ed è la prima volta che partecipa ad una missione umanitaria. E’ partita da Roma cercano di far tacere le aspettative pur sapendo che avrebbe vissuto in un angolo di mondo poverissimo e avrebbe lavorato in condizioni molto diverse rispetto a quelle che uno studente impara a conoscere in Italia Il primo impatto è stato duro: “Quando ho visto la realtà al di fuori dell’ospedale ho pensato che non sarei mai riuscita a cambiarla e allora mi sono chiesta che senso avesse quello che stavo facendo. E’ stata quasi disperazione”, racconta. “E’ assurdo che una persona debba vivere in condizioni per le quali non può realizzarsi, avere un’ istruzione di livello o servizi sanitari solo perché è nata nella parte sbagliata del mondo”, aggiunge.
Eppure, in quella terra martoriata dalla miseria, dalla fame, dalla siccità e dalle malattie, Maria coglie una “una pace di fondo”, una tranquillità nell’affrontare anche la più tragica delle situazioni, un misto tra rassegnazione ed attesa, confidenza che qualcosa accadrà. In quelle due settimane di lavoro, il senso di impotenza che la sorprende al suo primo incontro con il Tigray si muta nella fiducia che “nel nostro piccolo” si può invece fare molto e nella convinzione che alla fine basta cambiare la vita di una sola persona, di un solo paziente, perché il nostro fare abbia un significato, a Qhià come a Roma.
“Si torna dalla missione con una una maggiore predisposizione all’aiutare il nostro prossimo; si cresce, personalmente e professionalmente”. Come studentessa di medicina, Maria sperimenta un intenso lavoro di gruppo, il fare squadra nell’equipe chirurgica e fuori, con il ferrista, gli infermieri, il medico di laboratorio. Le problematiche organizzative della struttura ospedaliera e le particolari condizioni dei pazienti in quella regione pongono sfide nuove ad un aspirante medico europeo e insegnano una modalità di lavoro diversa, più riflessiva. “Impari che si può gestire con metodo ogni situazione senza farsi prendere dall’ansia, dalla fretta”, racconta. “Sicuramente le scelte che si fanno in un ambiente del genere sono molto diverse rispetto a quelle che si fanno in Italia”, sostiene. Mancano alcuni medicinali, le possibilità terapeutiche alternative alla chirurgia sono ben poche e le aspettative di vita inferiori a quelle europee. “Devi pensare, metterti nei panni dei pazienti, capire quello che potrebbe essere il loro outcome medico”. Cambia radicalmente, secondo Maria, la relazione con il malato: “Ti rendi conto di più della realtà del paziente. Il rapporto è più diretto. Forse è più facile sentirsi vicino al malato in quanto uomo. Ti prendi di cura di lui in tutto e per tutto, non solo dell’aspetto medico, ma anche di ciò che accadrà a quella persona dopo. Dell’Hewo mi ha colpito l’approccio che non si limita a curare il paziente in senso fisico, ma si occupa della sua vita, del suo lavoro, della famiglia, del come mantenersi dopo l’operazione o la terapia”, aggiunge. Stabilire una comunicazione con i pazienti non è, però, facile a causa delle barriere linguistiche e culturali, e di quello che lei definisce un “muretto” che separa i “ferengi” dagli etiopi. “Alla fine il modo migliore è parlare con lo sguardo e questo sarà molto importante nei rapporti che stailirò in futuro con i pazienti”.
Il contributo più importante delle organizzazioni che operano in contesti come quello di Qhià non è, dunque, solo “curare”. E’ anche avvicinare i mondi e culture diverse, aprire finestre su questi mondi e, da un punto vi vista sanitario, “formare il personale locale che può cosi andare avanti da solo”. Maria crede che questa missione avrà un impatto nel suo essere medico perché a casa non ha riportato solo una metodologia di lavoro nuova, ma anche una diversa visione della vita e del proprio mestiere. “Cominci a vedere le cose che qui si danno per scontate con altri occhi, a dargli un valore diverso. Impari la fratellanza e ad andare oltre le etichette sociali”. Ha imparato, Maria, che si può essere felici davvero con poco. Ha incontrato una donna, Maria, senza un marito, con dei figli e un solo misero stipendio, che ha deciso di ospitare una perfetta sconosciuta, madre anche lei, sola, con una bimba piccola, le offre un tetto, del cibo. “Una cosa non cosi rara. Ognuno manteneva otto o dieci persone con uno stipendio, cose che qui non vedresti mai”, afferma. E’ colpita da questo modello di vita dove la solidarietà è centrale. “Noi leghiamo sempre la felicità ad una condizione economica, sociale, al tipo di lavoro. Ho visto persone felici pur non avendo niente e questo mi ha aperto gli occhi”.